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I giovani e la Formazione

By 13 Dicembre 2019Maggio 13th, 2021No Comments

«Stay hungry, stay foolish»: era il 12 giugno 2005, Steve Jobs parlava ai laureandi della Stanford University e con quelle parole diede l’impronta a un’epoca. Sono trascorsi dodici anni e la fame – di futuro, di lavoro, di strappare il proprio posto nel mondo – sono entrati nel DNA dei millennials. Il 25 maggio 2017 Mark Zuckerberg, parlando ai laureandi di Harvard, ha liquidato quell’invito mitologico: «Non vi sto dicendo che dovete cercare il vostro scopo: siamo millennials, lo faremo istintivamente. Trovare il vostro scopo non è abbastanza, la sfida per la nostra generazione è creare un mondo in cui ognuno senta di avere uno scopo». Questa è la prima generazione ad essere immersa in uno scenario radicalmente globale: o l’innovazione sociale sarà pervasiva o il mondo non sarà. Per questo la vera urgenza è ripartire dall’istruzione.

La prima volta: scenari

Il futuro è incerto per definizione e non è la prima volta che il mondo cambia: mai però lo ha fatto così rapidamente. «La storia è stata a sviluppo lineare, questa è la prima era a sviluppo esponenziale: la popolazione mondiale ci ha messo fino al 1940 per attivare a 1 miliardo e oggi siamo a 7», afferma Hans Van Der Loo, portavoce della EU STEM Coalition. «Le politiche però non hanno compreso questa logica. È un problema, perché la crescita infinita esiste solo nei modelli matematici, su un pianeta finito è impossibile: significa che siamo vicini al punto di rottura. L’unico contrappeso è l’innovazione. Per questo l’istruzione è la sola risposta alle sfide» (qui sotto, il video che Hans Van Der Loo ha mostrato al convegno organizzato lo scorso maggio da Cometa, per introdurre il suo intervento). Ma scuola, istruzione e formazione sono all’altezza? E come devono cambiare per esserlo? Martin Mulder, esperto di studi sull’educazione e le competenze, professore emerito all’università di Wageningen, ha appena pubblicato un volume di mille pagine sul tema, “Competence-based Vocational and Professional Education“. Il passaggio dalle skills alle competenze, dal saper fare a un sapere integrato, per lui è la via per riuscire a costruire l’agognato ponte fra istruzione e lavoro: «Le competenze più necessarie saranno la capacità di gestire la complessità e l’ambiguità, il ragionamento argomentativo (non solo “come” fare, ma “perché” fare), la resilienza, il trovare l’equilibrio degli interessi. Molti dicono di voler preparare gli studenti a gestire il cambiamento in un mondo che cambia velocemente, ma non basta: i giovani devono prepararsi a trasformare la realtà, per costruire il loro futuro», afferma. Nessuno gliene regalerà uno.

Learning by doing

Nei primi tre mesi del 2017, una assunzione su 5 ha comportato difficoltà a reperire il personale adeguato e le indagini Excelsior ci ripetono da anni lo scandalo del mismatch. L’urgenza di costruire un ponte fra scuola e lavoro è stata recepita: l’alternanza scuola lavoro, l’apprendistato, la via italiana al sistema duale, la riforma della formazione professionale, gli ITS… Di learning by doing e work-based learning si parla molto. Nell’anno scolastico 2015/16 il 45,8% degli studenti di terza, quarta e quinta superiore hanno fatto un’esperienza di alternanza contro il 18,5% dell’anno prima. Non solo soft skills: a Galatone, in provincia di Lecce, due quarte hanno lavorato in Comune, pubblicando in formato open alcuni dati della PA. «Questa sarà la “generazione del riuso”, le competenze per trasformare i dati in servizi saranno utilissime. A Francavilla Fontana siamo a 110 dataset, mentre a Terlizzi gli studenti hanno censito 600 barriere architettoniche e una start up sta lavorando a un’ App che elabori percorsi accessibili», spiega Pierfrancesco Paolicelli, formatore e consulente Open-data per la PA. A Cometa, sulle rive del lago di Como, vanno oltre l’alternanza: il loro modello è la “scuola-impresa” (secondo una valutazione fatta dal Centro Tiresia del Politecnico di Milano, i 50 studenti strappati alla dispersione scolastica ogni anno valgono una riduzione di spesa pubblica pari a 650mila euro). Come funziona? Borsa Italiana ha commissionato alla scuola un paravento e i ragazzi hanno lavorato tutto l’anno sulla commessa: l’ideazione, i prototipi, la presentazione ai committenti, tre paraventi ora saranno prodotti e venduti. Lo stesso con una t-shirt per Bershka. «Il processo del lavoro diventa un elemento di progettazione didattica e in più l’esperienza lavorativa è utilizzata come chiave formativa: le discipline nascono per risolvere dei problemi anche se l’abbiamo dimenticato», spiega Alessandro Mele, direttore generale di Cometa, «se i ragazzi lo comprendono cambia tutto, perché diventa un confronto con la realtà. Troppo spesso la scuola è distante dalla realtà».

Un altro tassello della partita sono gli ITS-Istituti Tecnici Superiori: nati nel 2011, sono una formazione terziaria non universitaria. Il 79,1% dei diplomati dopo dodici mesi ha un lavoro, la governance è partecipata per statuto e gran parte dei docenti arriva dritta dalle aziende. «Quando le imprese segnalano la necessità di una nuova competenza, in poco tempo riusciamo a inserire un esperto e fornire il corso, nelle scuole non è possibile», spiega Maria Carla Furlan, direttore dell’ITS Turismo di Jesolo, primo in Italia con il suo 98% di allievi occupati. Web e social, revenue management, network trasversali (dalla bici enogastronomia), così cambia il lavoro nel turismo, ma soprattutto serve la capacità di «personalizzazione del prodotto, dal vegano al celiaco e di costruire pacchetti sempre nuovi per il cliente, lavorando con il territorio».

Nicola Modugno invece è responsabile della scuola di formazione di Confindustria Umbria e direttore dell’ITS Umbria per innovazione, tecnologia e sviluppo del made in Italy. «Qui tutti nei garage hanno una piccola officina: se devi industrializzare vai in Germania, ma se devi prototipare vai in Italia. Questo resta, ma la nuova specializzazione che serve è la capacità di approcciare processi integrati complessi», spiega, raccontando di un’azienda del polo aerospace che «creerà dei gruppi di lavoro misto fra aziende, università e ITS per sviluppare un’isola 4.0: i nostri allievi saranno il team di lavoro dell’isola, con prospettive occupazionali praticamente certe». E chi il learning by doing lo fa da sempre, come l’istruzione e formazione professionale? «Rafforzare questo sistema è la vera politica attiva per il lavoro.

L’IeFP è un sistema che funziona, assorbiamo la dispersione scolastica, più del 50% dei nostri allievi a tre anni dalla qualifica ha un’occupazione, il problema è la diffusione a macchia di leopardo», spiega Paola Vacchina, presidente di Forma, l’associazione degli enti nazionali di formazione professionale. Per don Enrico Peretti, direttore generale di Cnos-Fap, realtà legata ai salesiani, «è la corretta interazione fra i due mondi a far la differenza: le aziende non devono “dettare legge” sulla formazione ma nemmeno la scuola sulle aziende. Stiamo iniziando un lavoro di rilettura delle 22 qualifiche professionali: non dobbiamo chiedere all’azienda che profili servono, ma insieme a loro capire dove ci sarà lavoro. La tecnologia non toglie il lavoro, lo qualifica: la fabbrica 4.0 sta chiedendo una intelligenza e una creatività che solo le persone possono dare».

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